VAN GOGH E LA SUA CARROZZA
Il 7 luglio 1889 da St.Rémy con la carrozza del manicomio, un infermiere lo trasportò ad Arles (26 Km) e ritorno e pochi mesi dopo, il 23 febbraio 1890, da due infermieri fu riportato a St.Rémy, questa volta mezzo morto, da Arles dove si era recato col treno. Van Gogh restò nel sanatorio per un anno, fino a maggio 1890: due mesi dopo sarà la fine. E’ ben logico che ebbe a conoscerne il funzionamento e il contesto e vedere più o meno spesso le varie carrozze e vetture che andavano e venivano e tra queste certamente anche quella per il trasporto dei malati, un veicolo che connotava qualche segno esteriore distintivo della propria funzione. Ma la carrozza nella cultura dell’artista rivestiva altri significati: il suo simbolo lo segue dalla fanciullezza, uno dei ricordi incancellabili era quando lo zio Vincent entrava fragorosamente a bordo del suo calesse nel cortile della pieve del fratello Theodorus, padre dell’artista, e ne scendeva con leccornie e dolci per i nipoti. E già in una lettera del 1877 al fratello Theo scrive del romanzo di Daudet su Tartarino di Tarascona che in seguito tanta parte occuperà nel suo epistolario: la carrozza non era tanto un veicolo quanto una allegoria: essa è la esistenza umana e ogni uomo ne giuoca la parte del cavallo aggiogato! Non è la casa, a guisa del guscio della lumaca o della corazza della tartaruga, indivisibile e inseparabile: essa configura l’esistenza, la quotidianità, un accessorio dunque, mobile e staccabile a seconda delle circostanze: infatti l’auspicio che più volte esprime nelle lettere è: “abbandonare la carrozza e rifugiarsi nella natura, assieme agli altri pittori-cavalli suoi colleghi, pascolare nel prato verde, vivere liberi, procreare…”. E perciò il senso ricorrente del viaggio e dell’eterno viaggiatore, dell’uomo che si tira dietro la sua carrozza e destino. E tale concezione è un filo rosso che segna la sua spiritualità. E di conseguenza è a dir poco inspiegabile come tale ingrediente della vita interiore dell’artista, il significato della carrozza, sia stato passato quasi completamente sotto silenzio dai cultori. E nella edizione recente a cura del Museo Van Gogh dell’epistolario dell’artista, impresa durata quindici anni e impegno notevole, meticoloso fino all’acribia, si parla letteralmente di tutto, anche del colore dei calzini se indossati, fuorché non dico evidenziare e/o annotare ma quanto meno prendere nota delle citazioni sue e di Theo sui cavalli e sulle carrozze e la loro rilevanza e significato. Già Theo dieci giorni prima della fine scrive: “noi siamo come il carrettiere che sta per raggiungere la vetta e che poi torna in basso e prende corsa e arriva sulla cima della collina, come te, fratello mio” (14.7.1890), e venti giorni prima della fine scrive ancora: ”… la tua carrozza è solida e robusta, come la mia grazie a mia moglie. E tu, calma! tieni bene a freno il tuo cavallo onde evitare incidenti e quanto a me ogni tanto un colpetto di frusta non fa male” (30.6.1890).
Come diligenza, carro agricolo, calesse, carrozza di nomadi, ecc. è presente nella sua opera in numerosi esempi, un elenco che vogliamo risparmiare al lettore, confermando che la carrozza per l’artista a seguito del profondo significato sotteso, è molto di più che gli iris o i girasoli o i campi di grano.
La carrozza è normalmente associata al dolore e angoscia: quando Van Gogh scrive di carrozze, di cavalli da tiro, di viaggi, si percepisce una nota di disperazione o di morte. Il menzionato romanzo di Daudet ‘Tartarino di Tarascona’, la lettura del quale ripetutamente raccomanda, contiene una pagina significativa: il ‘lamento della diligenza’: la diligenza sempre curata al massimo e tirata a lucido, aggiogata a cavalli di razza ben addestrati, festeggiata ogni volta alla partenza da Arles e festosamente accolta al suo arrivo a Tarascona (18 Km) e viceversa, illustra il momento felice nella vita dell’uomo, quando cioè tutto collima e concorda. Poi le circostanze, impongono nuove situazioni, arriva il treno e ecco che la bella diligenza di Tarascona non serve più e viene venduta nel Maghreb: qui la sua esistenza è agli antipodi, trainata da cavallucci nervosi e selvaggi, su strade accidentate, non curata, solo sfruttata al massimo: alla fine quando cadente e svilita, viene semplicemente abbandonata sul ciglio di una strada e qui lasciata alla dissoluzione.
La esistenza è una destinazione scritta sulla sabbia: volgendo il viaggio al termine, costatare che tutto è stato una beffa o un’afflizione, allora la soluzione: liberarsi della carrozza perché per lui, il cavallo aggiogato, in realtà il percorso non è stato che un solenne fallimento; il primo maggio 1890, tre mesi prima della fine, scrive: “ma quando questo viaggio sarà finito e terminato….esso sarà un tracollo, un naufragio”. E perciò la fuga dal presente e perciò anche acuta nostalgia del suo passato, di un periodo forse meno sventurato: ora, fine della permanenza a St.Rémy, si sente un ‘vaso rotto’, un naufrago, un peso morto. E si libera della catena, della carrozza e l’abbandona al degrado.
E la carrozza viene identificata col manicomio, con Saint-Rémy, come carrozza sanitaria, una specie di ambulanza, contrassegno di una esistenza di afflizione e disperazione ma ora è finita: rinnegata e ripudiata sul ciglio della strada, col freno tirato, col fanale reclinato su un lato, il sudario della morte ben presente in cassetta al posto del vetturino. Lui, il povero cavallo, non c’è più, un nuovo inizio lo attende? Sì, la sua ultima illusione, tra un paio di mesi.
Questo dipinto ad olio, dalle misure 46,2×64,2, dimensioni strane come è quasi la regola nelle opere dell’artista poiché era solito, per ragioni economiche, acquistare tela a rotoli e ritagliarla a misura; la natura spoglia e senza vita, tutto è rivolto verso una medesima direzione, l’epilogo: il cielo, la via, la carrozza. I colori medesimi impiegati suggeriscono l’assenza di vita, come teorizzato nelle ultime lettere dell’anno 1889, per esempio nella 607 e nella 613, epoca del quadro: la semplificazione del cromatismo, ‘i mezzi toni di verde’ accoppiati ‘al colore ocra’, a significare che aveva conseguito maggior padronanza di sé e maggiore consapevolezza del proprio stato mentale e della sua situazione ’sconvolgente’ nella quale si trovava e dalla quale urgentemente uscire: le tonalità di verde e ocra -e di questi due colori in accoppiata- sono colori risultato di ricerche e di sperimentazioni personalissime di quella sola epoca.
Il dipinto rappresenta una rivoluzione sia come soggetto, l’ambulanza di St.Rémy, sia come confessione autobiografica eccezionale ed unica.
© Michele Santulli