L’EMIGRAZIONE TRANSOCEANICA ITALIANA E I NOSTRI MORTI IN VIAGGIO.
I “fortunati” che non sarebbero stati respinti e rispediti in Italia per varie motivazioni, avevano affrontato un viaggio in oceano aperto, ammassati nelle stive di navi fumose assieme ad un migliaio di altri disperati e con scarso cibo a disposizione.
Sappiamo che gli imbarchi erano possibilmente programmati verso la fine dell’estate: si trattava di famiglie intere, di giovani adolescenti e padri costretti a lasciare la propria casa e i propri cari, determinati a costruire altrove un futuro migliore.
Le Compagnie di navigazione del tempo, avevano un colossale interesse nel diffondere il mito dell’America in quanto i milioni di emigranti rappresentavano un immenso business. Gli imbarchi diedero un robusto incoraggiamento all’industria navale italiana: il Registro Italiano, che nel 1865 contava un totale di 1.274 bastimenti (di cui solo 3 erano a vapore e gli altri a vela), già nel 1904 vedeva un numero di bastimenti più che raddoppiato (2.512). Di questi oltre la metà erano a vapore – 1.416 -.
Immaginiamo questa nostra popolazione giungere a bordo con il poco che si poteva trasportare in qualche fagotto e una valigia di cartone, “felici possessori” di un biglietto di terza classe, alloggiati nelle stive della nave in condizioni pietose. La traversata dal porto di Napoli a New York durava dalle due alle quattro settimane, in
base alle condizioni del mare e al carico. Dissimile, certo, dai barconi che vediamo percorrere i nostri mari ma certamente vergognosamente invivibili: le prime navi erano ad impiego misto di merce e uomini.
Molte compagnie obbligavano i passeggeri a trascorrere le ore del giorno in coperta esposti alle intemperie. Invece le notti trascorse nelle stive, in spazi angusti che fungevano da letto, non regalavano certamente un trasporto migliore delle ore diurne. Immaginiamo che le condizioni igieniche precarie, la fame e il disagio dovettero rappresentare una prova di coraggio che solo la forza della determinazione poté riuscire a superare, col miraggio dello sbarco sul territorio Americano.
Era Ellis Island, l’isola parzialmente artificiale costruita all’ingresso di Manhattan, il principale punto d’ingresso per gli immigrati che sbarcavano negli Stati Uniti d’America. Dal 1892 al 1954, anno della sua chiusura, dovette gestire in media circa 2.500 passeggeri il giorno e un picco massimo di oltre un milione di arrivi nell’anno record, il 1907.
All’inizio, tra i porti italiani è stato quello di Genova a gestire per quasi un secolo la mole più consistente del traffico di emigrazione per le Americhe per la precocità con cui l’emigrazione si manifestò nell’area ligure, benché a questa si unisse quella proveniente da altre regioni. Nel periodo 1833-1850 sono stati circa 14.000, gli emigranti partiti da Genova per le Americhe. “L’Eldorado” era rappresentato dalle regioni della Plata (68%), gli Stati Uniti (16,5%) e il Brasile (8%). Tra il 1876 e il 1901 dal porto di Genova s’imbarcò il 61% dell’emigrazione transoceanica italiana. Dopo pochi anni, vista la meridionalizzazione dei flussi e la prevalenza delle correnti migratorie per gli Stati Uniti, sarà il porto di Napoli ad assumere il primato nel traffico di emigrazione già nel 1901 s’imbarcò una quota di emigranti pari al doppio di quella del porto di Genova. Giungiamo, nel 1905, ai traffici migratori dal porto di Palermo e con quote meno rilevanti anche nel porto di Messina.
Ma veniamo ai naufragi accaduti agli italiani che si trasferivano in America, tra la fine dell’880 e gli inizi del 900: l’affondamento delle navi passeggeri, dei bastimenti e dei piroscafi che trasportavano i nostri connazionali oltre
oceano, portarono alla morte di migliaia di emigranti italiani. Il piroscafo “Ortigia” affondò nel 1880 (morirono centoquarantanove emigranti); l’Utopia naufragò nel 1891; il Bourgogne nel 1898; il “Sirio” nel 1906, il “Principessa Mafalda” nel 1927. La nave italiana Brazzo, che aveva imbarcato 1333 poveri emigranti, nel 1884, chiaramente stipati a bordo non come animali (che forse hanno un valore), ma proprio come persone che (avendo oramai pagato il biglietto), non contavano economicamente già più, ebbe in sorte il colera, che provocò venti morti. Sulla nave italiana Carlo Raggio, con 1894 emigranti, nel 1888 diciotto persone morirono di fame. Nella stessa nave, nel 1894, ventisette emigranti morirono per asfissia. Nel 1899 sulla nave Parà, trentaquattro morirono di morbillo. Senza dimenticare il 1891, quando, davanti al porto di Gibilterra, l’Utopia (con 813 emigranti a bordo, quasi tutti italiani), cozzò con la poppa sul rostro della corrazzata britannica Anson. La falla a bordo fece colare a picco la nave e perirono cinquecentosettantasei emigranti vissuto come una vicenda episodica e marginale rispetto allo scopo del viaggio. Soltanto quando (a volte accadeva), la meta non era raggiunta, il viaggio diventava un’esperienza a sé nel percorso migratorio.
Non si giungeva al porto agognato sia perché ci si ammalava e si moriva a bordo, sia per i tanti intoppi che accadevano nei porti di imbarco e nel corso delle traversate. Non dimentichiamo che c’era chi non riusciva ad imbarcarsi perché non superava la visita medica all’imbarco, chi era truffato dagli agenti di emigrazione e non trovava la nave su cui avrebbe dovuto imbarcarsi, chi era derubato nelle locande degli angiporti, chi saliva a bordo di navi talmente vecchie e in cattive condizioni che non erano in grado di giungere a destinazione. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, quando si accentuarono le partenze per le Americhe, il viaggio per nave durava anche più di un mese e si svolgeva in condizioni pietose. Infatti, fino all’approvazione della legge n. 23 del 31 gennaio 1901,[1] non esisteva una disciplina degli aspetti sanitari dell’emigrazione e, ancora nel 1900, la situazione del trasporto navale degli emigranti era così sintetizzata da un medico: “L’igiene e la pulizia sono costantemente in contrasto con la speculazione. Manca lo spazio, manca l’aria”.
Se guardiamo alle cuccette degli emigranti, esse erano ricavate in due o tre corridoi e ricevevano aria per lo più attraverso i boccaporti. L’altezza minima dei corridoi andava da un metro e sessanta centimetri per il primo, a un metro e novanta per il secondo. C’era il problema della conservazione dell’acqua potabile che era tenuta in casse di ferro rivestite di cemento. Queste, a causa del rollio della nave, tendevano a sgretolarsi intorbidando l’acqua che, venuta a contatto con il ferro ossidato, assumeva un colore rosso ed era consumata così dagli emigranti, non essendo previsti distillatori a bordo. Sappiamo che il cibo era preparato seguendo una serie di alternanze costanti tra giorni “grassi” e “magri”, giorni del “caffé” e giorni del “riso” e, a causa della prevalenza a bordo di settentrionali o di meridionali, si predisponevano pasti a base di riso o di pasta (maccheroni).
Terminiamo mettendo in evidenza un quadro della situazione sanitaria dell’emigrazione transoceanica italiana dal 1903 al 1925, che ci mostra lo stato di disorganizzazione dei servizi sanitari per l’emigrazione, sia di terra sia di bordo, per cui i dati rilevati dalla statistica, con riferimento alle malattie accertate durante il viaggio dal medico governativo o dal commissario viaggiante (laddove era possibile averne). Dall’analisi delle cifre fornite dalla statistica per il periodo 1903-1925 troviamo la persistenza per tutto l’intervallo considerato, di alcune malattie, sia nei viaggi di andata sia in quelli di ritorno dalle Americhe, in rapporto al diffondersi in Italia di patologie di massa (pellagra, malaria, tubercolosi) e nella statistica sulla morbosità nei viaggi transoceanici alcune di queste patologie siano massicciamente presenti. Tipico è il caso della malaria che dà gli indici più alti nei viaggi di andata sia per il Nord sia per il Sud America, superata solo dal morbillo. Nei viaggi per il Sud è alto il numero dei malati di tracomatosi e di scabbia, mentre nel ritorno in prevalenza, il tracoma, la tubercolosi e l’anchilostomiasi, del tutto assente nelle statistiche di andata. Nei rimpatri dal Nord compare la tubercolosi polmonare, le alienazioni mentali e il tracoma. I tassi di mortalità e di morbosità nei viaggi transoceanici sono superiori nei viaggi da e per il Sud America, dove si dirigevano le correnti migratorie con forte prevalenza di gruppi familiari. Finiamo con la costante ed elevata morbosità nei viaggi di ritorno per i rimpatriati dal Nord
America. Mentre il flusso migratorio verso gli Stati Uniti era composto in maggioranza di persone in buone condizioni fisiche e nella fascia di età di maggior efficienza fisica. Questo a merito di un processo di autoselezione della forza lavoro che sceglieva di emigrare e dei rigidi controlli sanitari attivati dagli Stati uniti nei confronti dell’emigrazione europea.
In breve: non dimentichiamo che siamo stati emigranti anche noi.
Bianca Fasano.