Ecco cosa potrebbe succedere in Italia dopo il via libera dell’Ue.
È arrivato l’accordo sul salario minimo in Europa. La direttiva non obbliga gli Stati ad adeguarsi, ma stabilisce un quadro per promuovere salari equi in tutta l’Unione. L’obiettivo è garantire retribuzioni dignitose e ridurre i lavoratori poveri. Per riuscire ad ottenere il sì dei paesi nordici, il testo della direttiva è molto prudente sulla contrattazione collettiva, che non viene messa in opposizione al salario minimo, bensì incoraggiata grazie alla partecipazione delle parti sociali. Quindi l’Europa non impone ai Ventisette di fissare una soglia oraria legale con cui retribuire i dipendenti, ma suggerisce, in alternativa, di varare una retribuzione base per via contrattuale.
SALARIO MINIMO, LA SITUAZIONE IN EUROPA
Il salario minimo esiste già in 21 paesi europei, non ce l’hanno– oltre all’Italia – Svezia, Danimarca, Finlandia, Austria e Cipro. Si tratta di Stati con sindacati forti dove le dinamiche salariali sono decise nell’ambito della contrattazione collettiva. Succede soprattutto in Scandinavia, area in cui i sindacati hanno ancora un grosso potere. Non sembra essere più così in Italia, specialmente nei servizi, settore in cui Cgil, Cisl e Uil non riescono a far applicare i contratti di categoria. Nei paesi in cui esiste, il salario minimo è regolamentato con una soglia uguale per tutti sotto la quale le imprese non possono andare. E i divari sono molto elevati: si va dai 330 euro al mese della Bulgaria agli 800 di Grecia e Portogallo. La Spagna ha previsto una retribuzione minima di circa 1.100 euro, Francia e Germania intorno ai 1.600 euro, Belgio e Olanda si attestano attorno ai 1.700. Guida la classifica il Lussemburgo con 2.200 euro al mese. Il parlamento tedesco, proprio la settimana scorsa, ha approvato l’aumento del salario minimo orario a 12 euro lordi a partire dal 1° ottobre. Questa decisione comporterà in Germania un miglioramento della retribuzione per sei milioni di dipendenti su una popolazione attiva di 45 milioni di persone.
SALARIO MINIMO, IL CASO ITALIA
Come certificato dall’Ocse, negli ultimi trent’anni nel nostro paese gli stipendi sono diminuiti del 3%, a fronte dell’incremento segnato in Germania e Francia di oltre il 30%. Le ragioni sono tante: dal Pil stagnante alla bassa produttività, ma evidentemente c’è anche un problema di contrattazione. Il dibattito politico sul salario minimo è cominciato all’inizio di questa legislatura, dopo che per anni ha sempre rappresentato un tabù, anche a sinistra. In Senato è fermo un disegno di legge dell’ex ministra dela Lavoro Nunzia Catalfo (M5s) che fissa una retribuzione non inferiore al contratto collettivo nazionale del settore di appartenenza, o comunque non sotto i 9 euro l’ora. Che poi sono le due strade immaginate dalla direttiva europea. Il salario legale è spinto anche dal presidente dell’Inps Pasquale Tridico: con 9 euro lordi l’ora, per otto ore al giorno per cinque giorni, lo stipendio garantito sarebbe di mille euro netti al mese.
LA PARTI SOCIALI
Quanto al salario minimo per via contrattuale, ci vuole il via libera delle parti sociali. Che finora, però, sembra lontano. La Cisl è sempre stata contraria, Cgil e Uil hanno aperto a questa possibilità solo negli ultimi tempi. Confindustria si batte per un taglio consistente del cuneo fiscale e considera il fenomeno delle ‘paghe da fame’ un problema delle altre associazioni datoriali. Confindustria, ha detto Carlo Bonomi, ha già rinnovato il grosso dei suoi contratti nazionali: su 7 milioni di lavoratori in attesa (il 55% degli addetti italiani ha il contratto in scadenza) solo 250 mila rientrano nel sistema confindustriale.
LA PROPOSTA DI ORLANDO
L’ipotesi di salario minimo del ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha riavvicinato i sindacati e potrebbe trovare il favore anche delle associazioni datoriali. L’esponente del Pd propone di estendere il contratto più rappresentativo di un settore a tutti i lavoratori di quello stesso comparto. In questo modo si conserverebbe il potere delle parti sociali in seno alla contrattazione collettiva, e si comincerebbe ad affrontare il problema del lavoro povero e dei contratti pirata.
I PARTITI E IL GOVERNO
La quadra però va trovata anche nella maggioranza e nel governo. Il centrodestra appare scettico, Forza Italia e Lega preferiscono concentrare gli sforzi sul taglio del cuneo fiscale tanto che il ministro azzurro Renato Brunetta ha affermato che “il salario minimo non è nella nostra cultura“. Ora che è arrivato il via libera di Bruxelles, Partito democratico e Movimento 5 stelle puntano su una misura di questo tipo e auspicano l’approvazione di un provvedimento entro la fine della legislatura. Il premier Mario Draghi nelle prossime settimane convocherà a Palazzo Chigi i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil per discutere di lavoro e dell’incremento dei prezzi. Le retribuzioni, infatti, perdono sempre più potere d’acquisto a causa dell’inflazione, stimata dall’Istat a maggio al 6,9%. L’una tantum di 200 euro che l’esecutivo ha previsto per gli italiani con redditi fino a 35 mila euro nel cedolino di luglio non basta, occorre agevolare i rinnovi dei contratti scaduti e magari tornare a intervenire sul cuneo fiscale. Ma il clima deve cambiare, finché le parti sociali e la politica continueranno ad affrontarsi in un clima così divisivo sarà difficile arrivare a un accordo per sostenere i salari degli italiani. Che restano i più penalizzati d’Europa.
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