REPORTAGE. MIGRANTI NELLA ‘BOLLA’ DI LIPA, TRA BADMINTON E FONDI CHE NON ARRIVANO PIÙ.
Nel campo più famoso dei Balcani in 400 ospiti aspettano il momento giusto
Bihac (Bosnia Erzegovina) – Ali faceva il “taxi driver” in Afghanistan: dal suo inglese non si riesce a capire bene da quanto tempo sia in viaggio, si direbbe non poco se da quando se n’è andato è passato per Grecia, Turchia e Serbia prima di finire a Lipa, sulle montagne bosniache, dove oggi, nel
capannone centrale del nuovo campo per i migranti, tocca a lui distribuire e rimettere in ordine i giochi (carte o badminton) con cui si inganna l’attesa, mentre fuori il cielo si rannuvola, il freddo non invoglia a stare all’aperto e qualcuno si infagotta in una coperta. Sogna di raggiungere il Belgio o la Svizzera: mostra i pollici verso l’alto, ma non per dire ‘quelli sono paesi ok’, bensì che là prendono le impronte digitali e questo un po’ lo preoccupa. Ma lo dice sorridendo tra una mossa di pedina e l’altra. Quasi tutti sorridono nell’incontrare i cinque volontari di “Bologna sulla rotta”, la piattaforma nata un anno fa nel capoluogo emiliano a seguito dell’emergenza migranti in Bosnia, arrivati lunedì a Lipa con palloni, racchette da ping pong, materiale per il laboratorio di cucito e altro ancora per sostenere le attività del cosiddetto ‘social cafè’ che nel campo è curato da Ipsia Acli, e molto apprezzato.
Ali ha provato il Game (il cammino nei boschi per superare la frontiera) quattro volte e quattro volte è tornato indietro. “Pushbacks”; “e se non ti fermano i poliziotti, sono i cittadini che chiamano gli agenti croati…”, aggiunge scuotendo la testa. Oggi è a Lipa e qui aspetta tempi migliori per riprovare. Meglio quand’è più caldo, le notti bosniache sono davvero fredde. Qualche giorno fa, prima che arrivasse il gruppetto da Bologna, a Lipa il clima era più mite, “c’erano 15 gradi ed eravamo tutti più allegri”, racconta una operatrice di Ong che entra nel campo tutti i giorni e dove ora ci sono circa 400 persone: non il migliaio e oltre di un anno fa, quando c’era la neve e, al posto dei container da sei persone, tendoni da 30 posti di cui solo tre-quattro con speranza di dormire con un minimo di caldo. Ci sono pakistani, afghani, ragazzi dal Burkina Faso, un cubano, un ucraino, un turco, una dozzina di famiglie e alcuni minori stranieri soli. I numeri variano spesso. E intanto, anche se le presenze (per ora) non si impennano, vanno avanti i lavori per completare il grande investimento fatto per il nuovo campo di Lipa. Manca da finire la moschea e l’area per fare sport sta prendendo forma, si vedono gli operai intenti a costruire un locale dove mangeranno solo i ragazzi più giovani.
Il campo è diviso per zone: un grande spazio con più gradoni recintati, suddiviso da vialetti, su ciascuno dei quali sono disposti in serie i container bianchi: l’area dei sigle men, delle famiglie, dei minori non accompagnati. Un posto che dà l’impressione di funzionare bene, ma che forse non ‘risolve’ il problema dei migranti e del loro desiderio di raggiungere una specifica destinazione. Come se si fosse in una ‘bolla’, sospesi: né di qua, né di là, non in cammino, ma sempre in attesa di riprenderlo. E difatti ci sono associazioni o organizzazioni che per questo preferiscono operare fuori da Lipa. “Intendiamoci resta sempre un posto non facile però, se si ripensa a un anno fa, le condizioni sono migliori. Qui almeno hanno dove dormire, dove stare, acqua corrente, cibo…. Non si affonda nel fango. Possono uscire se vogliono, provare il Game e se tornano passano un periodo di isolamento di cinque giorni”, racconta la volontaria proprio mentre rivede e saluta un ragazzo che si avvicina alla rete che separa l’area di quarantena. Anche solo per andare a far la spesa si rischia di finire in isolamento per essersi allontanati. Ma Bihac, la cittadina di confine, dista una trentina di chilometri a piedi o pagando un passaggio (ma a 150 euro): gente che cammina ai bordi della strada che collega la città al campo non se ne vede. Si avvista semmai qualche gruppetto di ragazzi dalle parti del confine: passano da uno dei punti-centri diurni che si trovano nei dintorni di Bihac per una doccia, lavare qualche abito, “bere un thè o mangiare un dattero”, ricaricare il telefono, prendere giacche, scarpe o maglioni nuovi e poi salutare incamminandosi verso la frontiera. In posti come questi, vicino al “border”, o “zona di respingimento” come dice un volontario di Ong, di questi tempi bussa una ventina di persone al giorno.
Col bel tempo di pochi giorni fa chi non era a Lipa, dove sono stati portati i migranti che si erano accampati in varie zone della Bosnia (chi non ci è finito sta ben nascosto per non andarci), ha provato il Game e si dice che ci sia anche chi è riuscito a farcela. “Ma questa è la stagione della pausa, dello stare fermi ad aspettare”, spiega bene una operatrice di Ipsia Acli. Un po’ una bolla, appunto. Per i refugees di Lipa, ma anche le stesse organizzazioni umanitarie. Lungo il confine bosniaco-croato, si aspetta e si cerca di capire: il momento giusto per un passaggio, ma anche se riprenderà il flusso di arrivi di qualche tempo fa: “In Grecia le presenze sono stabili e in Grecia come in Turchia i controlli sono aumentati”: finché da quei territori non si parte e non si arriva anche in Bosnia la pressione non aumenta. E mentre si aspetta di capire se i venti di guerra in Ucraina sposteranno di nuovo i migranti sulla Rotta balcanica che attraversa la Bosnia, non c’è meno da fare, anzi: “Quando andò a fuoco tutto a Lipa, partì la corsa di chi voleva dare aiuto, donazioni, adesso è dura…”, raccontano gli
operatori umanitari. C’è un posto a Lipa che lo esemplifica bene: un’area coperta dove si trovano enormi cilindri di cemento, sono i forni, sopravvissuti all’incendio, dove i migranti possono cucinare i loro piatti tradizionali. Uno dei progetti attivati da Ipsia Acli serviva a rifornirli di legna (senza ovviamente non funzionano), ma la legna costa e le donazioni di fondi sono meno ‘arrembanti’, ora scarseggiano l’una e gli altri. Così come i fondi aiuterebbero a far decollare il progetto lavanderia, anch’esso a cura di Ipsia: ora gli abiti vengono presi, portati a Bihac e restituiti puliti, ma tutto potrebbe essere fatto al campo affidandolo agli stessi “beneficiari”, come qui chiamano gli ospiti, i ‘ragazzi’ in cammino sula Rotta per dirla con gli esponenti delle Ong. Intanto nel capannone oggi è giornata di mini-corso di italiano e per chi parla il punjabi pronunciare le vocali italiane non è così ‘easy’. C’è da ingannare l’attesa, certo, ma anche da tenersi pronti. In pochi tra gli attuali ospiti di Lipa sono lì da un anno. “Io voglio andarmene”, confermano più o meno tutti tra una chiacchiera e l’altra con il gruppetto di bolognesi. Ma l’alternativa, come ricorda anche un grande cartello, è al massimo un rimpatrio assistito per il qual e però non c’è la fila… E quindi ci si prepara: marzo-aprile potrebbe già essere la prossima cartina di tornasole per la Rotta balcanica e Lipa, ci sarà chi partirà, ma tra gli ‘addetti ai lavori’ si prevede che quello potrebbe essere il prossimo periodo di arrivi. Intanto anche piccoli aiuti aiutano: “Preziosissimi i volano, da queste parti non se ne trovano ma essendo un passatempo molto amato tra i ragazzi quelli che ci sono si consumano in pochi giorni”. Ben venga anche solo una racchetta da ping pong in più; il social cafè è sospeso nei weekend e alla riapertura al lunedì c’è la fila: “Per fortuna ci sono questi di Ipsia- dice un migrante- che ci fanno giocare e ci trattano come persone”.
Agenzia DiRE www.dire.it