A vent’anni dall’attentato a New York dell’11 Settembre 2001.

A vent’anni dall’attentato a New York dell’11 Settembre 2001

New York 2001 Kabul 2021: andata e ritorno del Male

nell’arte transrealista di Francesco Guadagnuolo

Roccasecca dei Volsci (LT), Domenica 12 settembre 2021 alle ore 17,30, s’inaugura, presso il Museo Comunale di Palazzo Massimo (Piazza Umberto I° n. 9), la mostra del Maestro Francesco Guadagnuolo: New York 2001 Kabul 2021: andata e ritorno del Male nell’arte transrealista di Francesco Guadagnuolo per commemorare i vent’anni dell’attentato alle Torri gemelle di New York dell’11 Settembre 2001.

Interverranno: il Sindaco Barbara Petroni, l’Assessore alla Cultura Giuseppe Papi, il M° Francesco Guadagnuolo, lo Scrittore Massimiliano Mancini e l’Architetto Pier Giulio Cantarano.

 

Scrive il critico e storico dell’arte Antonio Gasbarrini: «Di fronte alle galoppanti tragedie che stanno inseguendo l’umanità intera in questi bui tempi esistenziali dominati dal pestifero, trasformistico Covid-19, può l’arte contrastare, con il suo più che sperimentato “vaccino dell’anima”, l’autodistruttiva tendenza di fondo tesa ad azzerare la parola “vita” (umana, animale e vegetale) una volta per tutte?

La risposta, nel guardare le opere presenti in questa mostra personale New York 2001 Kabul 2021: andata e ritorno del Male nell’arte transrealista di Francesco Guadagnuolo, sembra essere affermativa. E, quel “sembra” non è un limite posto all’efficacia del menzionato “vaccino dell’anima”, bensì una presa di coscienza dell’imprevedibilità delle azioni pragmatiche di volta in volta poste in essere per sconfiggere non già i patogeni agenti del Male (incarnati ora dalla terrifica, trafitta immagine-emblema del Corona virus), bensì dalla crescente Malvagità con cui decine e decine di migliaia di “umanoidi” continuano con pervicacia a dare il peggio del peggio di sé, come dimostrano i luttuosi giorni dell’11 settembre 2001 con la distruzione jihadista delle Twin Towers e dell’agosto 2021 con l’infausto ritorno al potere dei talebani nella martoriata terra afghana.

Da attento osservatore degli avvenimenti più scioccanti che avvengono negli insanguinati scenari della realtà socio-antropologica da cui ognuno di noi è assediato con il bombardamento dell’informazione mediatica (per lo più dis/informazione, come ci sta ampiamente dimostrando il crescente dominio delle fake news), Francesco Guadagnuolo non si tira indietro. Contrapponendo on real time la sua effervescente sensibilità creativa ai vari accadimenti con dipinti e sculture dal chiaro imprinting transrealista.

Esaminiamo ora le coordinate formali-linguistiche prendendo spunto dal confronto dialettico posto in essere dall’artista siciliano naturalizzato romano, in questa esposizione ove alcune delle opere appartenenti al ciclo New York – New York, 11.09.2001 Afterwards realizzate a ridosso dell’attentato newyorchese (nel frattempo già esposto in varie città italiane ed estere) con una sorta di “Polittico della speranza” appena dipinto e qui presente, dedicato alle donne ed ai bambini afghani.

E lo facciamo riproponendo subito il nostro testo critico steso a suo tempo:

«Ora che le ‘cuspidi’ dei grattacieli (i grattanuvole come li chiamavano i futuristi) più alti di Manhattan sono stati ridotti in macerie, il paesaggio urbano-metropolitano di New York non è più lo stesso. Quel che è peggio, è radicalmente cambiato il “paesaggio psicologico” (quello dell’anima) del popolo americano.

Di fronte al videogame a cui abbiamo assistito, ove il tragico realismo visivo dell’attentato terroristico ha azzerato in una manciata di minuti tutte le trame e gli effetti speciali dei romanzi e film d’azione americani (tanto banale è risultata una fantasia più che annacquata), l’arte di Francesco Guadagnuolo e dei tanti altri artisti che in tutto il mondo continuano e continueranno a misurarsi con il malefico simbolo dell’odio, della distruzione e della morte, dà una significativa risposta estetica all’orrore vissuto dai cittadini americani (e virtualmente trasferito in ogni angolo del globo con il “bombardamento” massmediatico).

Se la poetica di questa quarantina di lavori di New York – New York 11.09.2001: afterwards coincide sostanzialmente con quella del precedente ciclo New York – New York 11.09.2001: before proposto nel ’95, anch’esso itinerante, nettamente diversa è l’atmosfera, incupitasi ora nella declinazione espressionistica delle immagini.

Schermate televisive, volti, mappe, lacerti pittorici destrutturano il tempo lineare della storia scandito dal subjectile (il supporto-tela del calendario), accelerando il ritmo di una narrazione visiva diventata concitata ed afasica.

L’orgogliosa verticalità cartesiano-euclidea delle due Torri Gemelle di New York, simbolo par excellence del potere terreno, si è afflosciata, sbriciolata in quel tellurico crollo effigiato con il rimescolamento visuale di una prospettiva rinascimentale razionale nella sua statica fissità, dinamicamente demolita da quei detriti che sembrano volare e che in effetti precipitano, da quei corpi bruciacchiati usciti da un girone dell’inferno dantesco, da quelle polverose ceneri ricoprenti spazi e cose.

E quelle impeccabili finestre virtuali aperte sullo status symbol della “mitogenia americana” sono adesso realisticamente serrate a lutto, chiuse nel ristretto perimetro di un’opera ammutolita di fronte all’inenarrabilità dell’agghiacciante evento. Ma l’immagine può più della parola se la parola si trasmuta in immagine, e se la stessa scrittura di uno spartito musicale si fa “suono visivo”, come si può percepire nel quadro Ave verum, il cui titolo è tratto appunto dall’Ave verum op. 42 del Maestro Sergio Calligaris.

Da sottolineare, nella non irregimentabile grammatica e sintassi visuale transreale, il persistente riferimento a questa o quella lezione avanguardista storicamente affermatasi, Pop inclusa. Mai “scopiazzata” o “camuffata”, però, sotto le mentite spoglie d’una inesistente originalità urlata ai quattro venti da sprovveduti epigoni dell’ultima ora; bensì discreta ed appena accennata, con quel pizzico di persistente concettualità duchampiana che certo non guasta.

Nel “Polittico della speranza” qui proposto, la tragica realtà degli avvenimenti afghani scorrenti sotto i nostri ipnotizzati occhi è transrealisticamente oltrepassata da Francesco Guadagnuolo, non già negandola o prendendone le distanze per non essere disturbato nel posticcio eden del proprio benessere acquisito, ma avvicinandosi ad essa in punta di piedi.

Osservando, con il dovuto distacco emotivo, quelle terribili scene delle migliaia e migliaia di afghani (e non solo: donne e bambini, in particolare) accalcati nell’aeroporto di Kabul.

Già negli eloquenti titoli L’alba del nuovo giorno, Solitudine della Donna, Voleranno ancora gli aquiloni?… e Una lettera-poesia alle donne afgane scritta ad hoc dalla poeta Anna Maria Farabbi su esplicito invito dell’artista – opera appena abbozzata al momento di scrivere questa nota – è racchiuso il raggomitolato fil rouge poetico collegante i due capitali eventi (New York – Kabul) d’una contemporaneità socio-culturale pervasa in occidente dalla triade illuministica Liberté, Égalité, Fraternité. Una emancipatrice triade questa, completamente negata dai discriminatori (uomo vs. donna) a-valori della sharia (alias “dritta via coranica”).

Ne L’alba del nuovo giorno, sono le figurine di quelle cinque donne in nero riprese di spalle ed indossanti il reclusorio burqa, mentre una loro compagna di sventura, forse più giovane in età, fa da battistrada nel cammino verso l’agognata, libertaria e liberalizzante luce dell’alba, ad evocare una salvifica e catartica via di fuga. Ben raggiungibile tra la rarefatta scena di un montagnoso paesaggio ove il concreto pericolo di pene e dolori plurisecolari, è ora ripristinabile dai talebani dopo la parentesi ventennale della fallita occidentalizzazione democratica della società afghana.

In Solitudine della Donna è il metafisico silenzio attorniante quella fantasmatica Donna (con la nobilitante D maiuscola) anch’essa effigiata di schiena con il burqa mentre il suo incarcerato sguardo non può che smarrirsi tra i decisi, astrattizzanti timbri della tavolozza, a far scattare un cortocircuito immaginifico con l’opera capitale del romanticismo qual è il Viandante in un mare di nebbia di Caspar David Friedrich. Se l’impostazione prospettica delle due scene ha molte affinità, ben diverso è sia l’aspetto formale delle stesse, che il loro polare contenuto: nel quadro di Friedrich domina il messaggio simbolico della malinconia e del sublime; in quello di Guadagnuolo il senso ultimo d’una profonda angoscia legata al domani.

L’interrogativo ed i puntini di sospensione di Voleranno ancora gli aquiloni?…, infine, chiamano direttamente in causa alcune pagine del fortunato romanzo di Khaled Hosseini Il cacciatore di aquiloni. Solo che la loro infuocata, futuristica e futuribile danza matissiana attorno al rilievo cartografico dell’Afghanistan impressa dalle vorticose pennellate di Francesco Guadagnuolo, non è più finalizzata a tagliare il filo perdente della lotta intrapresa tra giovani avversari, ma a riannodarli: «Se Dio esisteva, doveva guidare il vento, farlo soffiare in mio favore in modo che con uno strattone io potessi liberarmi del mio dolore e del mio tormento. Avevo sopportato troppo. Ed ecco che improvvisamente la speranza diventava certezza. Avrei vinto. Era solo questione di tempo. Una folata di vento fece alzare il mio aquilone. Ero in vantaggio. Mi portai sopra quello azzurro e mantenni la posizione. Il mio avversario sapeva di essere nei guai. Tentò una manovra disperata per liberarsi di me, ma io non glielo permisi. La folla intuiva che la gara stava per concludersi. Taglialo! Taglialo! […]. Chiusi gli occhi e allentai la presa sul filo. Il vento lo faceva scorrere tra le mie dita incidendo tagli profondi. E poi… Non ebbi bisogno di ascoltare il boato della folla. Né di vedere quello che accadeva attorno a me».

A noi tutti, invece, e ad ognuno secondo la propria sensibilità, corre l’obbligo etico – così come ci sta consentendo l’illuminante, transrealistica Arte di Francesco Guadagnuolo – di vedere non solo quello che «accadeva intorno a me», ma “lontanissimo da me”».

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