REDDITO DI CITTADINANZA. IACOVISSI (PSI): “Separare il sussidio contro la povertà dal reddito per il lavoro”.
Sono trascorsi quasi due anni dall’introduzione del reddito di cittadinanza. Annunciato come lo strumento per promuovere l’occupazione e il reinserimento nel mondo del lavoro delle categorie più fragili, si è rivelato, purtroppo, solo un mezzo di sostegno alla povertà, giusto ma incompleto. Possiamo quindi tracciare un bilancio in negativo di questo istituto che rappresentò la stella polare della campagna elettorale dei cinquestelle nel 2018. A confermarlo sono i numeri. Secondo quanto scrive l’apposito Osservatorio dell’INPS, infatti, alla data dell’11 novembre scorso i percettori del reddito di cittadinanza erano 1.322.817 nuclei familiari, pari a 3.328.531 persone coinvolte e con un importo medio mensile pro-capite di 567,62 euro. A fronte di ciò, l’Anpal (Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro) rende noto che al 31 ottobre 2020, i beneficiari RdC con un rapporto di lavoro ancora attivo erano 192.851, intorno al 14 per cento. Di questi il 65% con un contratto a termine e solo il 15,4% con un contratto a tempo indeterminato. In sintesi, 14 percettori del reddito di cittadinanza su 100 hanno trovato un lavoro, peraltro non stabile.
Dalle cifre si evince quindi come lo strumento abbia mancato la propria funzione originaria, nonostante il contributo di quasi 3000 “navigator”. Per finanziare il reddito di cittadinanza il Governo ha stanziato circa 6 miliardi per il 2019 e 7 miliardi per il 2020, mentre per il 2021 si prevede un ulteriore incremento di circa 4 miliardi, destinato ad aumentare per la crescita del numero dei beneficiari indotta dalle conseguenze economiche della pandemia. Negli ultimi giorni da alcuni ambienti governativi pare, invece, profilarsi una timida volontà di rivedere lo strumento per rimodularne importi e funzioni, per concentrarsi solamente sul sostegno alla povertà, e ciò implicitamente costituisce l’ammissione di una sconfitta.
A questo punto si impone la necessità di una profonda discussione sull’efficacia di simili misure per trovare la soluzione ad un problema che esiste ed è reale, per non parlare delle polemiche generate dalla scoperta di casi di fruizione del beneficio da parte di soggetti che, sulla base di un esame più approfondito della propria condizione economica, non ne avrebbero avuto titolo.
Un ravvedimento operoso da parte del Governo sarebbe quindi quantomeno auspicabile per rivedere l’istituto e così meglio allocare le risorse ad esso destinate. In primo luogo, si potrebbe prevedere un filtro sulle domande ad opera dei Comuni, che conoscendo bene la situazione socio-economica del proprio territorio potrebbero verificare l’esistenza dei requisiti per l’ammissione al beneficio riducendo i rischi di abuso o illegittima percezione. In secondo luogo, sarebbe utile scindere in due strumenti diversi il doveroso sostegno ai più deboli – soprattutto in questo periodo di grande difficoltà per molte persone – dallo sviluppo dell’occupazione. Dunque, un sussidio contro la povertà e un reddito per il lavoro, con importi e presupposti diversi e differenti livelli istituzionali di intervento. Da un lato i Comuni di concerto con l’INPS e dall’altro i Centri per l’impiego (da riformare e rafforzare sul serio) con il concorso fattivo delle Agenzie per il lavoro che ormai da un ventennio rappresentano uno dei principali luoghi di incontro fra domanda e offerta di occupazione. Questo nuovo reddito per il lavoro dovrebbe consistere in una sorta di indennità di formazione e disponibilità vincolata strettamente alla ricerca e l’accettazione di un impiego, facendo tesoro delle migliori esperienze sul tema a livello europeo, Scandinavia e Germania in testa.
04.12.20.